L’intendente Sanshō, una parabola universale di giustizia

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Giappone, undicesimo secolo. Quattro viandanti fiaccati dalla stanchezza spingono i loro passi su una strada polverosa di campagna. Chi sono? Dove vanno? “Se fossero stati in pellegrinaggio diretti verso qualche tempio nei dintorni, la loro presenza non avrebbe destato stupore, ma i bastoni da viaggio e i copricapo di bambù che portavano suscitavano la sorpresa e la compassione di chiunque li incontrasse”. I quattro sventurati, due donne adulte e due ragazzi, un maschio e una femmina appena adolescenti, desiderano raggiungere Taira Masauji e ricongiungersi a lui. Masauji, marito, padre e integerrimo amministratore locale, vive da esiliato nella lontana Tsukushi, a seguito di un intrigo del governatore, suo diretto superiore.

Sanshōdayū, ovvero L’intendente Sanshō, racconto di Mori Ōgai ispirato a una famosa leggenda buddhista, inizia con questa immagine fluttante, intrisa di straordinaria forza pittorica, iconica, degna di un’incisione di Hiroshige. I viandanti si avventurano in una zona ostile, brutale, dove per legge è vietato offrire protezione ai forestieri a seguito della diffusione in loco della compravendita di schiavi. Occorre prestare attenzione a questa inversione logica: la pratica oscena della schiavitù non è bandita dal regno. Invece, al suo posto, è ostracizzata la misericordia, come se la benevolenza verso il prossimo potesse agevolare i malvagi. “Per le persone dell’epoca un ordine era un ordine”, scrive Ōgai. Ostacolare il contatto umano con la promessa della prigione, inibire l’eventualità che sotto lo stesso tetto alberghino sconosciuti non sono misure che possono sgonfiare la propagazione del male sociale. Ecco il paradosso. L’istituzionalizzazione dei muri non era salutare ieri, non lo è oggi. Il contesto spiana la strada ai peggiori inganni. L’ottusa banalità del potere favorisce la scaltrezza dei furbi. Yamaokadayū, un barcaiolo sbucato dagli angoli bui della notte invernale, si presenta ai malcapitati agitando fattezze da benefattore. Yamaokadayū dispensa saggi consigli e delinea i pericoli di una geografia del territorio ostile e selvaggia. Una minestra calda, quattro mura solide per ripararsi dal vento gelido: l’accoglienza è una soglia semplice da valicare. All’alba, però, il sollievo evapora di fronte all’evidenza del tradimento. La quattordicenne Anju e il dodicenne Zuishō, strappati all’amorevole madre e alla fedele nutrice Ubatake, che perirà in mare, sono consegnati ai mercanti di schiavi. Giappone dell’era Kanji o Libia post-Gheddafi?

Le regole ciniche e casuali della contabilità economica scandiscono le tragiche tappe esistenziali della famiglia. I due barcaioli, comprano l’intero pacchetto, madre, domestica, figlio e figlia per sei kanmon, prima di dividersi la posta. Anju e Zuishō piombano loro malgrado a Yura, nella provincia di Tango, riacquistati per sette kanmon dall’addetto agli schiavi del ricchissimo intendente Sanshō. Tagliati fuori dal mondo, i fratelli abitano uno spazio di sospensione crudele. Le capanne trasudano sporcizia, le stuoie stese sui pavimenti in terra battuta brillano di brina e le meste scodelle sono riempite di riso cotto in acqua salata. Gli schiavi fuggiaschi, una volta ripresi, subiscono la gogna della marchiatura a fuoco, pigiata sul corpo del malaugurato, di proprio pugno, dal padrone con sadica soddisfazione. Saburō, terzo figlio dell’intendente e volenteroso carnefice, sostituisce il padre nel mestiere con il medesimo zelo. Un altro figlio, Tarō, incapace di reggere cotanta efferatezza paterna, fuggì sedicenne, nelle campagne, nei boschi, forse attirato dalla vita monacale. I due fratelli, stretti in corporature fragili ed eredi di un nobile lignaggio, sono assegnati a mansioni umili, la raccolta della legna nei boschi (il maschio), il riempimento dei secchi in riva al mare (la femmina). Intanto, si perdono, almeno per il momento, le tracce della madre, approdata a Sado. La narrazione ne occulta la sorte. Presenza distante, il suo ricordo, per i figli, vale come richiamo e ragione di resistenza nei difficili giorni a venire.

Attraverso la parabola buddhista, eterno monito spirituale, Ōgai pungola il peculiare momento storico in cui il racconto è scritto e la sua stessa esistenza è calata, l’era Meiji (1868 – 1912). L’apertura allo straniero comporta, per una nazione feudale fino ad allora ermeticamente sigillata, la liquefazione delle architetture istituzionali vecchie di secoli. In breve tempo, il Giappone è investito da uno shock culturale di proporzioni immani. “Fu nel mese di marzo del 1882 che Sua Maestà mi ordinò di elaborare un progetto di Costituzione da sottoporre alla sua approvazione. Non si doveva perdere tempo e pertanto il 15 dello stesso mese partii per un lungo viaggio in diversi paesi costituzionali per fare uno studio il più esteso possibile sul funzionamento reale dei differenti sistemi di governo costituzionale, sui loro differenti provvedimenti, così come sulle teorie ed opinioni effettivamente considerate da persone influenti riguardo alla reale piattaforma della vita costituzionale. Presi con me dei giovani, tutti appartenenti all’élite della generazione nascente per assistermi e per cooperare ai miei studi. Soggiornai per circa un anno e mezzo in Europa ed avendo raccolto il materiale necessario, quanto più esteso possibile in così breve periodo di tempo, ritornai in patria nel settembre del 1883”. Sono parole di Ito Hirobumi, primo ministro nipponico nell’era Meiji e uno dei padri del Giappone moderno.

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Mori Ōgai

Maria Teresa Orsi, nella bella introduzione a questa recentissima edizione pubblicata da Marietti 1820, ci ricorda che Ōgai, medico militare, fu l’esponente di punta di una straordinaria nidiata di intellettuali. Questi letterati, tra i quali si annovera anche il grande scrittore Natsume Sōseki, riportarono in patria le scoperte culturali e il bagaglio di esperienze maturate altrove, spesso in Germania e in altre nazioni politicamente ed economicamente “avanzate”. Molti di loro tentarono di mediare tra le acquisite convinzioni liberali e la necessità di rivestire ruoli pubblici, all’interno di un sistema comunque fortemente autoritario. L’Impero soppianta lo Shogunato. Gli antichi precetti di onore e fedeltà alla casata non muoiono ma vengono rielaborati e divengono l’architrave delle nuove, potentissime corporazioni economiche (Zaibatsu). La famiglia è un cardine sacro. La Costituzione, cui fa accenno Hirobumi, viene plasmata su quella del Secondo Reich. L’esempio di buon politico preso a modello dalla classe dirigente giapponese è il cancelliere Bismarck. Il nazionalismo assume accenti inediti e sinistri. Gli stranieri, pur imitati, sono investiti da sentimenti di odio sempre più profondi.

Ōgai nelle sue opere intreccia la ricerca storica a una riflessione sul binomio modernità/tradizione e sulle conseguenti cesure valoriali. La statuetta di Jizō, custodita dai fratelli, idolo di giustizia e di salvezza, è emblema di integrità morale e spirituale nonché scudo dalle intemperie, medium dell’ala protettiva materna. La sacra figura si sostituisce alla realtà ripugnante. Il terrore della marchiatura a fuoco è sventato nelle forme del sogno carezzevole. Laddove le capricciose regole del potere disintegrano qualunque ideale di giustizia in nome del bieco interesse, la religione gioca un ruolo fondamentale. Nell’episodio del Kokubunji, quando il fuggitivo Zuishō è braccato dalle fiaccole delle guardie, interviene con decisione l’intransigente abate. Vi è un punto da sottolineare: l’autorità religiosa, incarnata dal Maestro Donmyō, ribadisce la verità della legge benedetta dall’ordine imperiale e regolarmente trascritta, in opposizione agli appetiti sregolati di chi regola le faccende locali mediante la forza. Nel dominio feudale vale la parola arbitraria, mutevole, di uno solo. L’Impero è retto da principi superiori che trascendono le consuetudini provinciali. “All’ingresso [del Tempio] c’è una tavoletta vergata da Sua Maestà l’Imperatore in persona, e nella pagoda a sette piani sono conservati dei sūtra a caratteri d’oro scritti di suo pugno”. Armonia contro disarmonia, compassione contro disumanità, legge scritta contro volontà tirannica. Ōgai trascina il lettore nel gorgo di queste antinomie basiche ed universali.

Ōgai si sofferma sulle emozioni dei personaggi. L’interiorità filtra il realismo insostenibile del luogo di costrizione. Il racconto ha il suo tragico snodo nella morte di Anju. “Più tardi gli uomini di Sanshōdayū, usciti a dare la caccia ai due ragazzi, trovarono sul bordo dello stagno in fondo al pendio un piccolo paio di sandali abbandonati. Erano di Anju”. Il suicidio della giovane è certo un modo per coprire la fuga del fratello e depistare gli inseguitori ma ancor di più rappresenta il sottrarsi della dignità del sé alla denigrante violenza insita nelle pratiche di tortura. Anju azzera la possibilità stessa che l’ultrapotere carcerario ottenga informazioni sulla destinazione del fratello. Il ragazzo, ignaro del gesto estremo della sorella, si lascia alle spalle il feudo dell’intendente, tanto simile, per i meccanismi concentrazionari culminanti nelle disumane pratiche punitive, a un novecentesco campo di concentramento, per ottenere riparo, come detto, tra i monaci e proseguire, da lì, il suo cammino di riscatto e redenzione. Zuishō trova accoglienza nella capitale Kyoto. Qui è accolto dal Reggente Morozane, che riconosce l’idolo di famiglia, e ricondotto allo stato laico. Ribattezzato Masamichi nella cerimonia della maggiore età, Zuishō è elevato da Morozane alla carica di governatore della provincia di Tango. “Il primo editto del nuovo governatore fu la proibizione della compravendita degli schiavi in tutta la provincia”. Sanshōdayū, sconfitto, libera i suoi servitori e paga per il loro lavoro. Al neogovernatore, informato dallo stesso Reggente della sorte toccata all’infelice padre, morto in esilio a Tsukushi, non resta che rintracciare la madre. Per fare questo, Zuishō, deve prendersi una vacanza dall’incarico. L’agnizione finale è commovente. “Come se si fosse liberato da invisibili catene che lo legavano, si precipitò nell’aia e calpestando le spighe di miglio si prostrò davanti alla donna sfiorandole la fronte con il Jizō che aveva nella mano destra”. Il sussurro della madre, composto da frasi ripetute come un mantra ‘Anju mia cara, mi manchi! Zuishō mio caro, ti voglio bene!’, spazza via ogni dubbio su chi sia l’anziana donna semidemente, con le vesti a brandelli, abbarbicata alla sua canna di bambù, ormai cieca.

Cos’è un nome, se non un segno di possesso? L’intendente cambia i nomi agli schiavi (Anju nel campo è Shinobugusa, Zuishō è Waseregusa, nomi che rimandano alle rispettive mansioni), una ri-modellazione radicale delle identità caratteristica, per dirla con Agamben, del destino della nuda vita esposta alle determinazioni del potere. Una dinamica di mutazioni che il regista tedesco R.W. Fassbinder interpretò benissimo quando decise di far coincidere la transizione dalla prigionia alla libertà, in quel caso il lager nazista, con la transizione/cambio di sesso nello splendido In un anno con tredici lune. Il gesto della giovane ragazza è di pura rivolta, una negazione dell’armamentario di repressione e oppressione costruito dal Sistema. Shinobugusa torna ad essere Anju, stavolta per sempre, il nome di battesimo primordiale che la madre accarezza nel suo canto fluido e naturale. L’azione irrimediabile condotta da Anju contro se stessa è un taglio irrimediabile che insiste sulla ferita familiare, una coltellata inferta al senso universale di giustizia, da leggersi in parallelo con il destino di cecità della madre. Certo, Zuishō alias Masamichi, restituito al suo rango, è finalmente libero ed è nella condizione di dare libertà agli altri però qualcosa, troppo, è andato perduto in maniera irreversibile. La miseria della madre, cenciosa, a malapena capace di alzarsi da terra, è la summa di ciò che resta: una famiglia decimata, cui la brama insensata del potere ha estorto ogni bene, o quasi. Matilde Mastrangelo, curatrice e traduttrice dell’opera, nell’efficace saggio inserito a mo’ di postfazione nel volume scrive: “Quello che viene messo in dubbio [da Ōgai] non è mai il rispetto delle leggi, ma la loro efficacia nella vita delle persone”.

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Kenji Mizoguchi, L’intendente Sanshō, 1954

Nel 1954 Kenji Mizoguchi esaspera la china pessimistica della parabola. Il suo film capolavoro, vincitore del Leone d’Argento al Festival del cinema di Venezia, sottolinea l’effimera consistenza delle illusioni. I precetti paterni “Senza la pietà, un uomo non è un essere umano… Sii duro con te stesso ma generoso con gli altri… Gli uomini sono stati creati uguali e tutti hanno diritto alla felicità” cadono nel vuoto, sbriciolati dalla realtà cinica e bara; Zuishō, personaggio tormentato, si accosta alle ragioni del carnefice, confondendo il coraggio richiesto per proteggere la sorella con la durezza di un comportamento insensibile; l’intendente, amara ironia, è qui un feudatario intoccabile del Ministro della Giustizia; l’Imperatore, pur dimostrandosi vicino al dramma del giovane fuggiasco, gli proibisce esplicitamente di affrancare gli schiavi una volta eletto, in quanto l’enclave di Sanshō non è nella sua giurisdizione; le moltitudini liberate, in un delirio bacchico, bruciano la tenuta dell’intendente, degradando la giustizia a vendetta; Zuishō, deciso a trovare la madre Tamaki costi quello che costi, si dimette dalla carica di governatore. Mizoguchi, genio del cinema giapponese al pari di Ozu, Kurosawa e Ōshima, gira il film a nove anni da Hiroshima e Nagasaki. La sua nazione, dopo il delirio fascista e imperialista, è in fase di turbolenta metamorfosi capitalistica. Decenni prima, Ōgai era stato testimone dello tsunami economico e sociale che aveva squassato il Giappone feudale. Per entrambi la virtù della compassione reclamata dalla tradizione buddhista è l’antidoto morale ai vortici maligni della Storia.

Alessandro Vergari

(Mori Ōgai, L’intendente Sanshō, Marietti Editore, 2019, traduzione di Matilde Mastrangelo)

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